STORIA DEL CATACLISMA E DELLE SETTE RAZZE NELLA NUOVA ERA
I bambini si radunarono intorno al vecchio che, seduto di fronte al fuoco, scrutava le fiamme, perso nei suoi pensieri. “Nonno, nonno”, gridarono i bambini, “raccontaci una storia.” L’uomo non si mosse. “Nonno”, insistettero i bambini, “vogliamo una storia, ti prego, nonno, una storia.” Con un sospiro egli si voltò. “E che storia volete che vi racconti?” domandò. “La storia di come siamo giunti in questo mondo”, risposero i bambini. “Ma l’avete già sentita decine di volte”, obiettò il vecchio. “Non volete che vi racconti una storia nuova?” “Nooo!” ribadirono i bambini all’unisono. “E va bene, d’accordo”, cedette l’uomo sorridendo. Si schiarì la voce ed iniziò a raccontare. “Dovete sapere che, tanto tempo fa, quando io ero un bambino come voi, ci fu una guerra terribile. Gli eserciti si scontravano nelle pianure, le città bruciavano, per le strade e nelle campagne non si udivano altro che urla di rabbia e pianti disperati. Una notte io e i miei fratelli fummo svegliati da un rombo cupo che faceva tremare le pareti e tintinnare i vetri delle finestre. Sembrava un tuono, ma non finiva mai. In quel momento mio padre spalancò la porta e ci condusse fuori. Fu allora che lo vidi…” Il vecchio esitò. “Uno squarcio, da una parte all’altra del cielo. Più nero della notte. Un abisso di oscurità. Era da lì che proveniva il rombo… Io lo fissavo e, d’un tratto, mi sentii cadere. Cadevo verso il cielo, verso quell’oscurità catramosa e senza fondo...” Il vecchio si interruppe di nuovo. “In seguito tutti si accusarono a vicenda di aver scatenato quel potere spaventoso. Gli umani accusarono gli aragrim. Gli aragrim puntarono il dito contro gli elfi… Ma la verità è che nessuno seppe mai com’era successo. I responsabili o erano periti nel cataclisma o si erano persi per sempre tra i mondi. E quando la tessitura dello spazio e del tempo si ricucì, il mondo, il vecchio mondo, era ormai perduto.” L’uomo tacque per un attimo ed osservò i bambini che, accoccolati ai suoi piedi, attendevano in silenzio il proseguimento della storia. “I primi tempi furono molto duri… Avevo perso mio padre, e i miei fratelli. Noi superstiti, affamati e smarriti, vagavamo per le strade di un mondo che allora ci era sconosciuto. Scoprimmo numerose città, grandi e magnifiche, completamente vuote. Non rimaneva alcuna traccia di chi le avesse costruite, se non per i ritratti e le statue che adornavano piazze e palazzi. Ci accorgemmo così che coloro che le avevano abitate erano esseri simili a noi.” Il vecchio riprese dopo un istante. “Alla fine, comunque, i tempi brutti finirono. Gli uomini, si sa, sono resilienti e poco alla volta rendemmo questo mondo la nostra nuova casa. La terra era fertile, i fiumi pieni di vita, le città che avevamo ereditato un rifugio sicuro contro le tenebre della notte. Presto le lacrime lasciarono il posto ai sorrisi ed imparammo ad orientarci sotto il nuovo firmamento. Ad un’unica cosa non ci abituammo mai, ma questo… Non potete capirlo…” Il vecchio smise di parlare. “Cos’è che non possiamo capire?” chiesero i bambini. “È … È difficile da spiegare…” balbettò il vecchio. “Le voci. Le voci degli dèi. Le voci che ci avevano accompagnato da sempre… Si erano zittite. Gli dèi non avevano mai varcato la soglia del nuovo mondo.”
Il fuoco scoppiettava nel camino. L’uomo si alzò e con l’attizzatoio rivoltò i ciocchi di legna che sprizzarono faville. “Si sta facendo tardi”, disse. “È quasi ora di andare a dormire.” “Non ancora”, piagnucolò un bambino. “Prima un’altra storia”, aggiunse un secondo. Il vecchio emise un rumoroso sospiro e sedette di nuovo di fronte al fuoco. “Che storia volete sentire questa volta?” “Quella dei sette popoli della terra.” “Molto bene, e da chi volete che inizi?” “Dagli elfi”, risposero i bambini con trepidazione. “Gli elfi… Abitatori dei boschi, abilissimi guerrieri. Sapete cosa si diceva degli elfi, quand’ero piccolo? Che il loro mondo di origine non fosse il nostro vecchio mondo, ma che essi provenissero dalle stelle. Si diceva che nelle notti serene essi salissero sulla cima degli alberi di Yew, la loro città arborea, e scrutassero il cielo del nord alla ricerca di un piccolo astro azzurro. E che a quell’astro elevassero canti e lamenti fino al sorgere dell’aurora. Si diceva anche che un frammento di quell’astro fosse celato nel cuore del loro regno e che da esso derivasse il loro splendore e la loro vita imperitura.” “Possiamo vedere la stella azzurra degli elfi?” chiese un bambino. “Purtroppo no”, rispose il vecchio. “Dal nostro cielo notturno, neanche il più acuto osservatore è mai riuscito ad osservarla. Ma gli elfi dicono che un giorno essa brillerà di nuovo ed allora tutti noi potremo fare ritorno a casa.”
“E ora? Di chi parliamo?” “Dei messaggeri dell’inverno”, esclamarono i bambini. “I messaggeri dell’inverno… Gli arctica…” bisbigliò il vecchio. “Li avete mai incontrati? Hanno la pelle fredda come il ghiaccio e gli occhi rossi come braci incandescenti. C’è più magia in un loro dito di quanta se ne trovi nell’intero Concilio dei Maghi di Emperion. Il fatto è che non sono mortali. Voglio dire, non è che non si possano uccidere: puoi farlo, se ci riesci… Ma poi essi ritornano. Dopo il cataclisma nessuno li aveva più visti e si pensava che fossero svaniti insieme al vecchio mondo, ma poi iniziarono a riapparire, su al nord, tra i ghiacci e le nevi di Kriselia. E questo non è affatto un buon segno perché si dice che gli arctica appaiano nel mondo solo quando le porte dell’abisso si stanno per spalancare e che è loro destino combattere il male finché l’ultimo oscuro non sarà sconfitto. Ma, ahimè, è inutile chiedere loro quale sia la verità, visto che non sono tipi particolarmente loquaci.” “Chi sono gli oscuri, nonno?” domandò un bambino. “Esseri tenebrosi e malvagi”, rispose l’uomo, “incatenati nel profondo tanto tempo fa. Le leggende dicono che, prima dell’inizio dei tempi, ci fu una grande guerra tra due stirpi di dèi: i venerabili, esseri beati conosciuti anche come luminosi, e gli oscuri. La guerra era interminabile e stava portando entrambe le stirpi all’estinzione. Alla fine alcuni luminosi, facendo uso dei propri poteri, relegarono i loro nemici oltre i confini del mondo, ma così facendo consumarono il proprio spirito vitale e come meteore precipitarono dai cieli. Caddero nelle terre innevate del nord e là i loro spiriti rimasero intrappolati nei ghiacci, sprofondati in un sonno senza sogni, dimentichi della propria origine e dimenticati da tutti. Le epoche si susseguirono, grandi regni caddero e finirono nella polvere, quando le porte dell’abisso si dischiusero e alcuni oscuri fecero ritorno nel mondo, anche i luminosi caduti si risvegliarono. Ma essi non erano più le creature divine di un tempo, bensì esseri mortali, fatti di pelle, ossa e… ghiaccio.” Un grido di stupore si levò dai bambini. “Già, proprio così: erano gli arctica. Dato che essi apparivano tra i mortali ogni volta che grandi calamità squassavano il mondo, il loro nome divenne ben presto sinonimo di sventura, ma c’è da dire che i loro poteri sono davvero formidabili. Essi combatterono a fianco di Gilian, l’ultimo grande re degli uomini, quando nel vecchio mondo egli sconfisse Exar il distruttore, uno degli oscuri. Ora però una domanda sorge spontanea: gli arctica sono apparsi anche in questo mondo, ciò significa che gli oscuri stanno per riemergere dalle sue profondità?”
Proprio in quel momento il soffio del vento fece tremare le imposte e tutti rabbrividirono. “Non temete, spesso i cantastorie hanno la tendenza ad esagerare e molte leggende… Beh, sono solo leggende.” “A chi tocca ora?” "Raccontaci degli uomini, nonno." "Gli uomini..." disse il vecchio. "Capaci di imprese grandiose e di terribili nefandezze. Grandi condottieri, cavalieri mirabili, ma incapaci di vivere in pace. Lo stesso Gilian, il grande re, l'amico degli elfi che aveva unito i due popoli sposando Namiel, la dama dei boschi, colui che aveva sconfitto Exar e aveva reso gloriosa la sua stirpe, alla fine fu corrotto dal potere e dall'avidità. Perì, dopo aver scatenato una guerra insensata, per mano di coloro che un tempo aveva chiamato amici. Dopo di lui nessuno fu altrettanto grande. Dovete sapere che nella sala del palazzo di Emperion, intorno alla tavola dei cavalieri, rimane uno scranno vuoto. Vuoto ed in attesa che un nuovo re si faccia avanti, ma nessuno, nel vecchio e nel nuovo mondo, si è ancora rivelato degno di tale titolo. Tanti ci hanno provato, ma alla fine tutti sono caduti in disgrazia... Credete a me, è meglio così: il potere di un re è troppo grande e alla fine anche il più forte degli uomini finisce vittima delle sue stesse ambizioni."
“È vero che un tempo anche i vampiri erano uomini?" chiese un bambino. Il vecchio allungò le mani verso le fiamme del camino e si piegò sulla sedia. "Questa è una triste storia", disse. "Ed inizia tanto tempo fa, quando gli uomini erano una razza giovane e su cielo e terra dominavano gli ultimi venerabili. Gli uomini li adoravano come dèi, ma da parte loro i venerabili, spaventati dal potere che vedevano emergere nei mortali, trattavano questi ultimi come schiavi. Alcuni venerabili, conosciuti in seguito come nephilim, ebbero tuttavia compassione degli uomini e, mescolandosi a loro, fecero loro dei doni. L’arte di lavorare i metalli o di allevare i cavalli furono tutti doni fatti dai nephilim. Quando gli altri venerabili scoprirono cos’era accaduto, la loro reazione fu terribile. I nephilim furono cacciati e perseguitati, annientati uno ad uno. Evenshir fu l’ultimo dei nephilim e, vedendo avvicinarsi la fine, volle fare agli uomini un dono estremo. Prima di scomparire, scelse una ragazza tra i mortali, Meera, e le cedette l’immortalità.” Il vecchio smise di raccontare. “E poi che successe?” domandò un bambino. “Il dono di Evenshir era imperfetto. Meera aveva ottenuto l’immortalità, ma ad un prezzo terribile, perché solo col rito del sangue la sua esistenza poteva perpetuarsi. E così ella imparò a nascondersi tra le ombre, lontano dalla luce del giorno, e vagò in solitudine per le terre e tra le epoche, silenziosa come un soffio di vento, trasmettendo il suo dono ad altri. Nel corso dei secoli la stirpe dei vampiri cominciò a diffondersi. Dapprima essi erano pochi e senza un nome, esseri solitari in bilico sul precipizio che separa la vita dalla morte, perduti in un eterno crepuscolo, ma ben presto la loro forza crebbe. Il giorno in cui Meera scomparve, il potere della stirpe dei vampiri rivaleggiava ormai con quello degli altri popoli del vecchio mondo. “Dov’è finita Meera?” domandò un bambino. “Si dice che piombò in un sonno profondo e senza sogni, simile alla morte, perché il peso delle epoche che si susseguivano e la tristezza di quella vita senza fine era ormai diventato insopportabile. Di lei si perse ogni traccia ben prima che il cataclisma sconvolgesse i mondi.”
“Ora ci parli dei drow, nonno?” chiese un bambino. Il vecchio rifletté per un attimo. “Così come gli uomini sono i signori delle terre di superficie, i drow sono i padroni del sottosuolo. Nessuno, uomo o elfo, dio o mortale, ha mai varcato in armi le soglie delle fortezze sotterranee ed è tornato per raccontarlo. Anche gli oscuri temevano i drow. Questi invece, all’apice della loro potenza, misero a ferro e fuoco i regni di superficie, incendiarono gli alberi di Yew, si impossessarono della ricca Minoc, rasero al suolo Vesper e assediarono Britain. Tutto ciò accadeva nel vecchio mondo, ma anche oggi, in tempo di pace, solo uno sciocco metterebbe piede nel labirinto di Velglarn sperando di uscirne vivo.” “Come sono fatte le città dei drow, nonno? Ed è vero che la dea Lloth è un grosso ragno?” L’uomo si mise a ridere. “No, figliolo. Dea Ragno è solo l’appellativo con cui Lloth veniva chiamata, ma non era un grosso ragno. In realtà si dice che fosse bellissima, con la pelle scura come l’ebano e occhi brillanti come le stelle. Anche le città sotterranee dei drow, stando ai canti dei menestrelli, erano meravigliose. Alte colonne di pietra che si innalzavano come foreste d’alberi, aule spaziose sulla cui volta luccicavano pietre preziose come se fosse un firmamento di stelle e fuochi multicolori che ardevano nelle gallerie…”
Il vecchio interruppe il suo racconto e si alzò dalla sedia, si avvicinò ad uno scaffale e, da una bisaccia di pelle, estrasse una manciata di polvere bianca. Poi tornò verso il camino e gettò la polvere sui ceppi ardenti. Il fuoco ruggì e scintille colorate sprizzarono da ogni parte, facendo fuggire i bambini verso l’altro capo della stanza. “Non abbiamo ancora parlato degli efreet”, sentenziò il vecchio. “I figli del fuoco”, sussurrarono i bambini. “Proprio loro. Creati dagli oscuri per farne i propri servi, forgiati dalla roccia inanimata, modellati ad immagine dell’uomo, ma più forti, più resistenti ed infusi della magia del fuoco. Esseri concepiti con l’unico scopo di obbedire ciecamente agli ordini dei loro padroni e portare devastazione nelle terre dei mortali.” Il vecchio fece una pausa. “Ciò che gli oscuri però non immaginavano è che i loro servi, un giorno, si sarebbero ribellati… Il germe della rivolta fu gettato da Helel, l’ultimo ed il più saggio di tutti i venerabili. Egli scese in gran segreto nella forgia abissale, dove gli oscuri si stavano cimentando nell’atto di creare gli efreet, ed infuse in ogni effigie di pietra un frammento del proprio cuore. E così, quelli che non dovevano essere altro che meri automi asserviti al giogo dei propri signori, nacquero con un pezzetto di anima che pian piano crebbe, si radicò e alla fine portò gli efreet al risveglio. Esso avvenne quando gli oscuri emersero dall’abisso per portare la guerra nel mondo. Scagliati contro gli eserciti dei popoli di superficie, gli efreet perivano a centinaia, a migliaia, e per ogni morte la rabbia cresceva dentro di loro. Finché Kratos, il cui ricordo ancora oggi è vivo tra gli efreet, rivolse la propria lancia contro Exar, signore di tutti gli oscuri, e lo affrontò a duello. Exar rise quando il suo servo osò sfidarlo, ma i colpi di Kratos erano terribili quanto la sua ira e presto l’oscuro fu costretto a retrocedere. Quando la lancia di Kratos lo trafisse, Exar urlò di dolore e si scagliò con tutte le sue forze contro l’efreet. I due caddero a terra, la lancia si spezzò, Exar afferrò la testa di Kratos tra le mani e, maledicendolo, la fracassò. Quando l’oscuro si rialzò in piedi, vide che tutti gli efreet lo stavano osservando. Essi lasciarono cadere a terra le armi e, in silenzio, se ne andarono. Da quel giorno essi furono liberi.”
“E così siamo quasi giunti alla fine della storia”, disse il vecchio. “Rimane un solo popolo.” “Gli astuti aragrim”, esclamò un bambino. “Già, -astuto come un aragrim- si dice. D’oro la sua pelle, d’oro le sue tasche. Ma gli aragrim non sono solo dei mercanti”, spiegò. “Arrivarono in un’era lontana, da un’isola al di là del mare orientale e portarono con sé grandi meraviglie. Essi erano maestri della metallurgia, dell’alchimia, dell’arte di plasmare la pietra e di infondere movimento nella materia inanimata. Si diceva che nella loro terra di origine le città, di notte, fossero illuminate da migliaia di luci che brillavano senza bruciare e che essi potessero dialogare a grande distanza, senza bisogno di spostarsi e senza l’uso della magia. Sfruttando le proprie conoscenze essi avevano reso i propri corpi più longevi e resistenti alla fatica e alle malattie -ecco il perché della pelle dorata-, ma la loro continua sete di scoperte alla fine li aveva portati alla rovina…” Dopo una pausa, l’uomo riprese. “Gli aragrim non parlano volentieri della tragedia che li costrinse ad abbandonare la loro isola. Si sa solo che, nella fuga precipitosa, tanta parte del loro sapere e della loro tecnologia andò perduta per sempre. Quando arrivarono sulle loro navi, colme di marchingegni e strani strumenti, i popoli del continente accolsero gli esuli con benevolenza. Gli aragrim, stabilitisi nelle città, avviarono industrie senza eguali e commerci fiorenti, accumulando ben presto grandi ricchezze, ma senza rivelare a nessuno i segreti delle loro arti. Per questo motivo non sono mai stati particolarmente amati…” È vero che gli aragrim pensano solo a sé stessi?” domandò un bambino. “In parte è così. Essi non presero mai le parti di nessuno, se non quando il destino del mondo stesso era in pericolo. Furono infatti gli aragrim a creare le gemme del potere in cui furono intrappolati gli spiriti degli oscuri, alla fine della grande guerra contro Exar, e la spada brandita da Gilian era stata forgiata da un fabbro aragrim. Ma furono sempre gli aragrim a vestire d’argento la matrona Jarla, quando i drow assediarono Britain… Nubla, la città dorata, è oggi il luogo più pacifico del nuovo mondo, poiché nessuno vuole inimicarsi gli aragrim e perdere così l’accesso ai frutti del loro sapere.”
“Bene, eccoci giunti alla fine”, disse il vecchio. “E non chiedetemi di raccontare un’altra storia perché non lo farò!” “Nonno, ma tu come fai a conoscere tante cose?” “Sai figliolo, quando ero più giovane ho percorso il mondo in lungo e in largo… Ogni giorno una nuova avventura, ma alla fine, ahimè, il tempo presenta sempre il suo conto. Quando raggiungerete la mia età, avrete anche voi innumerevoli storie da raccontare… Ora a dormire, non voglio sentire un’altra parola fino a domattina!” I bambini abbracciarono il vecchio e salirono la scala verso le camere. L’uomo, rimasto solo, aprì silenziosamente la porta di casa ed uscì all’aperto. La notte era serena, le stelle brillavano, un vento leggero faceva frusciare le fronde degli alberi. Una figura ammantata uscì dalle ombre. “Ho colto qualche imprecisione nella tua storia”, disse. Il vecchio rise. “Certe cose è meglio non rivelarle, non credi?” “Forse, ma dimmi, dopo tutto questo tempo, ne è valsa la pena?” L’uomo si fece più serio. “Rinunciare all’immortalità, avere una famiglia, dei figli e un giorno inevitabilmente morire?” Sorrise. “Sì, ne è valsa la pena.”